Angeli dei Sette Chakra |
 Gli Angeli dei Chakra si rivolgono ad animi in cammino verso un sempre maggiore e consapevole equilibrio personale.
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I fieri assalti di crudel Fortuna
scrivo, piangendo la mia verde etate,
me che 'n si vili ed orride contrate
spendo il mio tempo senza loda alcuna.
Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,
vo procacciando con le Muse amate,
e spero ritrovar qualche pietate
malgrado de la cieca aspra importuna;
e, col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l'alma sciolta,
esser in pregio a più felici rive.
Questa spoglia, dove or mi trovo involta,
forse tale alto re nel mondo vive,
che 'n saldi marmi la terrà sepolta.
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Breve e infelicissima, legata a storie di sangue e di barbarie, fu la vicenda terrena della poetessa Isabella di Morra, nata a Napoli nel 1520, uccisa dai fratelli a soli ventisei anni, nel 1546, nel castello di Morra, la cui esistenza, troncata dal tragico finale, sembra racchiudere tutti gli elementi di un romanzo romantico.
Nacque da famiglia patrizia nel 1520 a Favale, tra Basilicata e Calabria, l’odierna Valsinni in Basilicata, dov’ era il feudo familiare.
Per sottrarsi ad un processo suo padre, il barone Gian Michele di Morra, partigiano dei Francesi, incorso nell’inimicizia col principe di Salerno, era stato costretto a emigrare prima a Roma, poi in Francia, alla corte di Francesco I, del quale era grande sostenitore, insieme al figlio, Scipione, colto e di animo gentile, al quale Isabella era molto legata, lasciando la moglie, Luisa Brancaccio, ed i figli (Isabella ancora bambina), nelle terre di famiglia, sul fiume Sinni in Lucania.
Isabella crebbe, dunque, chiusa nella solitudine del "denigrato sito", il castello paterno, collocato a picco sul mare, "sull’infelice lito", sotto la tutela dei fratelli rozzi, incolti e sempre più imbarbariti nel loro isolamento, che la detestavano e la tenevano segregata nel sinistro maniero, trovando unico conforto alla sua solitudine nelle letture dei classici e nelle fantasticherie, componendo versi, ma lontana dalla società letteraria napoletana.
A lungo attese il ritorno del padre e del fratello, nella speranza che potessero andare a prenderla per portarla in Francia, ma invano: suo padre era morto e il fratello, che viveva a corte, era ormai dimentico di lei.
Un precettore, spinto dall’affetto e dalla pietà per il suo destino di solitudine, favorì la conoscenza e la corrispondenza di Isabella col trovatore spagnolo Diego Sandoval de Castro, che abitava poco lontano da Favale, nel feudo di Bollita e che, appreso della triste condizione della giovane, per alleviare le sue pene le inviava lettere e componimenti poetici avvalendosi del nome della moglie, Antonia Caracciolo, con la quale appunto Isabella doveva essere in contatto.
I fratelli, scoperta la corrispondenza, e convinti che ci fosse tra i due una relazione amorosa, uccisero prima il precettore che li aveva aiutati, poi Isabella, nel timore che rivelasse i loro delitti, ed infine anche il poeta attirandolo in un tranello.
Della sua produzione, rivalutata da Benedetto Croce che ne riconobbe il valore di Poesia immortale, restano miracolosamente un esile canzoniere, le Rime, 13 componimenti, 10 sonetti e 3 canzoni, che rappresentano l’impetuosa autobiografia e ne rivelano l’ indole malinconica e appassionata, ma sono anche testimonianza della sua dotta e raffinata cultura.
Dimostrando di aver ben assimilato la lezione del Petrarca, considerato sommo maestro da tutti i lirici cinquecenteschi, per Isabella, definita la "Saffo lucana", il petrarchismo resta solo un vago punto di riferimento, e rivela sensibilità e suggestioni tassiane e leopardiane, con la trasfigurazione lirica del paesaggio, che diventa partecipe dei suoi stati d’animo, e la tragicità e la potenza delle immagini con cui esprime il suo tormento.
© F.Santucci - Tutti i diritti riservati. È vietato utilizzare questo testo, anche parzialmente, senza autorizzazione. |
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